PURG. IX – prove tecniche di Paradiso

La Commedia si può leggere in tanti modi. In ordine dal canto primo al canto cento, seguendo lo svolgimento di una storia e di una fabula, per quanto già a partire da Inferno 2 si vada di flashback. Oppure si può scegliere di leggere i vari canti seguendo delle piste, delle tematiche o dei personaggi.
Ad esempio si volesse seguire un percorso legato a Ulisse di dovrebbero raccogliere Inf. 26, Purg. 19 e 26 e Par. 27 (anche se Ulisse è un personaggio che invischia e pervade tutto il poema, con tutti i suoi richiami e link.).
Oppure si possono leggere parallelamente, seguendo il numero in maniera sinottica, verticale. Ad esempio i canti sesti, i cosiddetti canti politici.
Per esempio, questo nostro canto, il nono, può prestarsi a due possibili letture (ma sono solo esempi, le letture di ogni canto sono sempre multiple, a più voci).
Si potrebbe leggere in sinossi con gli altri canti noni, canti di soglia, di transizione, (in Inf. 9 abbiamo il passaggio oltre le mura di Dite, un passaggio ad un Inferno che è sempre più Inferno, dove Dante varca il limite che Enea non aveva superato con la Sibilla; in Par. 9 abbiamo il passaggio dai cieli influenzati dal cono d’ombra della Terra ai cieli più “paradisiaci”).
Oppure, potremmo leggere questo canto legato con i tre sogni purgatoriali (rispettivamente Purg. 9, 19 e 28). Il punto è che a seconda da come decidiamo di leggere il poema, come una sorta di prisma, avremo prospettive diverse che in qualche maniera andranno a integrare una visione sempre più rotonda dell’opera.
Questa lettura la terremo il più possibile contenuta dentro i confini del canto stesso, ma vi accorgerete come questo canto, di per sé, tenda a esondare ben al di fuori dai margini.

La concubina di Titone antico
già s’imbiancava al balco d’orïente,
fuor de le braccia del suo dolce amico;

di gemme la sua fronte era lucente,
poste in figura del freddo animale
che con la coda percuote la gente;

e la notte, de’ passi con che sale,
fatti avea due nel loco ov’eravamo,
e ’l terzo già chinava in giuso l’ale;

quand’io, che meco avea di quel d’Adamo,
vinto dal sonno, in su l’erba inchinai
là ’ve già tutti e cinque sedavamo.

Dante vuol dire “era l’alba”, in realtà dice, “l’amante del vecchio Titone, ovvero, l’Aurora, scioltasi dall’abbraccio dell’amante, già si colorava di bianco affacciata al balcone d’Oriente”.
Fosse così facile. Facile non è? (Ma in questo canto, come nel corrispettivo canto infernale, di facile avremo ben poco.)
Prima di tutto il termine “concubina” sì può essere letto come “moglie” o “sposa” come fanno molti dantisti, ma i commentatori antichi vedono concubina come “compagna di letto” e quindi “amante”, in un’ottica lussuriosa o di mulier fornicaria”. Insomma, in una polarità sicuramente perturbante.
“Imbiancava” sta per “imbiaccava”, “mettersi la biacca, il belletto”. Porta delle gemme lucenti in fronte, disposte a “figura di scorpione”. Lo scorpione è chiara immagine di frode e di lussuria. E noi lo avevamo intravisto dentro le sembianze chimeriche di Gerione.
Insomma è sì l’alba, ma pare un’alba intrisa di presagi funesti.
Non solo, il verso è calco virgiliano, palinsesto, “Ei iam prima novo spargebat lumine terras/ Tithoni croceum linquens cubile” Aen. IV, 584-585) e gli studiosi notano giustamente che tre volte compare l’aurora nel poema latino e per tre volte sarà presagio di sventura.
Didone, “appena dalle terrazze vide albeggiare la luce, e le vele della flotta allontanarsi allineate” (Aen. IV, 585-586, trad. del Sermonti): Didone, la regina lussuriosa, vedrà partire le truppe di Enea, e prima del suicidio, mediterà pensieri orribili di sangue e morte, al punto da vedere squartato il figlio di Enea, Ascanio, e servito “in tavola al padre per pietanza” (Aen. IV, 602).
Giorgio Stabile: “Questa concubina che, sciolta dall’abbraccio notturno del suo amante, va ad incipriarsi al balcone d’oriente ingioiellata di gemme astrali dal sinistro potere”.
I commentatori antichi di Virgilio, però, vedevano in questa alba, in questa fuga di Enea da Didone, il passaggio simbolico dall’età giovanile all’età adulta, e questo è un canto di transizione. Da questo canto inizierà qualcosa di nuovo. Il Purgatorio sarà più Purgatorio. Il Purgatorio sarà più Paradiso.
La gemma sta sulla fronte, ma in Italia al sorgere del sole la costellazione dello Scorpione si trova nella parte occidentale del cielo, proprio “in fronte”.
E non solo: se leggiamo Apocalisse, 9.3-5, leggiamo “3 Dal fumo uscirono sulla terra delle cavallette a cui fu dato un potere simile a quello degli scorpioni della terra. 4 E fu detto loro di non danneggiare l’erba della terra, né alcuna verdura, né alcun albero, ma solo gli uomini che non avessero il sigillo di Dio sulla fronte. 5 Fu loro concesso, non di ucciderli, ma di tormentarli per cinque mesi; e il tormento che procuravano era simile a quello prodotto dallo scorpione quando punge un uomo”.
E non sarà proprio Dante, alla fine di questo canto, ad avere 7 P incise sulla fronte (ma ovviamente ci torneremo).
In queste poche terzine vediamo la tendenza “alla fusione tra registri diversi: l’eroico-mitologico, il quotidiano dell’imbiaccarsi, il prezioso e petroso dello scorpione gemmeo” (Inglese).
Ma al di là di questa condensazione folle, di quale aurora stiamo parlando?
I commentatori tendono a vedere una doppia aurora, un’aurora lunare e un’aurora solare. Ma questo poi comporterebbe contorsioni di vario tipo.
Mi sembra che Ledda nella sua lectura del canto, centri bene la questione: quest’aurora così cupa e sinistra è un’aurora che avviene nel “nostro” emisfero, quindi NON è quella del Purgatorio. A scrivere qua è l’autore.
L’aurora funesta dell’emisfero settentrionale  è in opposizione all’aurora propizia di Purgatorio 1. Mentre in Italia è l’alba sull’isola stanno passando le tre di notte. Queste sono due visioni simultanee dei due emisferi.
Le notazioni cronologiche continuano.
“E la notte aveva fatto due dei passi con cui sale, nel luogo dove noi eravamo, e il terzo era quasi compiuto; quando io, che avevo un corpo in carne e ossa, vinto dal sonno, mi sdraiai sull’erba dove già sedevamo tutti e cinque.”: E così se in Italia è l’alba, nell’isola, ora, nel momento in cui l’agens vive la vicenda, sono già passate le prime due ore della notte e sta finendo la terza, e quindi sono quasi le nove di sera. Dante, dotato del corpo, è vinto dal sonno e si addormenta, dove stavano Virgilio, Sordello, Nino e Corrado, incontrati precedentemente.

Ma poi le cose si complicano, o meglio, si arricchiscono.

Ne l’ora che comincia i tristi lai
la rondinella presso a la mattina,
forse a memoria de’ suo’ primi guai,

e che la mente nostra, peregrina
più da la carne e men da’ pensier presa,
a le sue visïon quasi è divina,

in sogno mi parea veder sospesa
un’aguglia nel ciel con penne d’oro,
con l’ali aperte e a calare intesa;

ed esser mi parea là dove fuoro
abbandonati i suoi da Ganimede,
quando fu ratto al sommo consistoro.

“Nell’ora in cui la rondinella, vicino all’alba, comincia il suo triste stridio, forse ricordando i suoi primi dolori, e in cui la nostra mente, distaccata dal corpo e meno presa dai pensieri, fa dei sogni rivelatori, mi sembrava di vedere in sogno un’aquila dalle penne d’oro, che volteggiava in cielo con le ali spiegate e prossima a scendere; e mi sembrava di essere là (sul monte Ida) dove Ganimede abbandonò i suoi compagni, quando fu rapito al supremo concilio degli dei.”
Abbiamo una nuova indicazione dell’aurora, la seconda, a pochi versi, contando che fino adesso abbiamo tre notazioni cronologiche in cinque terzine (l’aurora nell’emisfero settentrionale, la notte nel Purgatorio e questa terza aurora).
Ma questa aurora dove la collochiamo?
Resto sulla linea di quanto indicato da Ledda: “Questo nuovo giorno non sorge nell’emisfero settentrionale, bensì finalmente in quello meridionale. Così quegli elementi equivoci o negativi dell’aurora mondana si rovesciano in un’aurora purgatoriale di segno totalmente opposto”.
Quindi adesso l’aurora apre a visioni oniriche veritiere. Ispirate. Occorre abbandonare le aurore ingannevoli dei peccaminosi giorni mondani, per affrontare le aurore dolorose ma salvifiche dei giorni di penitenza (Ledda).
Ma Dante decide di complicare le cose e inanellare una serie di miti che restano sulla scia di Dama Aurora ingioiellata con il suo scorpione in fronte.
“Ne l’ora che…”: tutti e tre i sogni del Purgatorio iniziano con questa formula (miei i corsivi).


Ne l’ora che comincia i tristi lai
la rondinella presso a la mattina,
forse a memoria de’ suo’ primi guai (Purg. 9)

Ne l’ora che non può ‘l calor diurno
intepidar più ‘l freddo de la luna,
vinto da terra, e talor da Saturno (Purg. 19)


Ne l’ora, credo, che de l’oriente,
prima raggiò nel monte Citerea,
che di foco d’amor par sempre ardente (Purg. 27)

Questo per gli amanti delle simmetrie. Per gli amanti delle delusioni, faccio presente che i sogni sembrano cadere in canti multipli di nove, ma così non è.
La rondinella che lamenta i suoi “lai”, i suoi versi dolenti (ma il link con Francesca è sfacciato), è la rondinella evocata nel mito da Ovidio (Met. VI 412-674). Tereo abusa della cognata, Filomela e le mozza la lingua; per vendetta Procne, la sorella/moglie, uccide il figlio e ne imbadisce le carni al marito (quello che Didone avrebbe voluto fare con Enea). Da qui la trasformazione in usignolo, rondine e upupa.
Nel sogno appare un’aquila con le penne d’oro che rapisce Dante e lo porta in cielo, così come Zeus rapì il bel Ganimede (Aen. 5, 249-57 e Met. X 155-161. E anche qui le cose non sono affatto tranquille, perché il rapimento omosessuale, pederotico, operato dal Dio, in alcuni padri della Chiesa aveva tutte i contorni dello stuprum (Agostino), un mito che parlava di un rapimento “in libidinum” (Arnobio).
Nella cultura medievale “il mito di Ganimede non era disgiungibile dalle sue implicazioni erotiche e peccaminose”, ma se ci pensiamo, tutte le terzine, fino adesso, da Aurora/Didone, Procne e Filomela evidenziano il “tema erotico” che “percorre l’intero contesto onirico”. Sembra proprio che una follia rosa, come la chiamerebbe Hillman, una pesante influenza afroditica domini e caratterizzi questo inizio di canto.
Come procede il sogno?

Fra me pensava: ’Forse questa fiede
pur qui per uso, e forse d’altro loco
disdegna di portarne suso in piede’.

Poi mi parea che, poi rotata un poco,
terribil come folgor discendesse,
e me rapisse suso infino al foco.

Ivi parea che ella e io ardesse;
e sì lo ’ncendio imaginato cosse,
che convenne che ’l sonno si rompesse.

L’aquila si muove in movimento circolare, “rotato”, così come in lenti giri scendeva proprio Gerione da una transizione all’altra (dal Regno della Violenza a quello della Frode). E poi come un folgore che discende (e qui gli echi di Ulisse e della Montanina sono evidenti), l’aquila prende fuoco e Dante si sceglia turbato dall’incendio immaginato. Al suo risveglio, turbato come Achille, dopo che la madre Teti lo traslò “da Chiròn a Sciro”, si ritrova in un’altra posizione, giunto alla porta del Purgatorio. Virgilio racconta che Lucia, mentre lui dormiva, lo prese per trasportarlo in quel punto.

Dianzi, ne l’alba che procede al giorno,
quando l’anima tua dentro dormia,
sovra li fiori ond’è là giù addorno

venne una donna, e disse: “I’ son Lucia;
lasciatemi pigliar costui che dorme;
sì l’agevolerò per la sua via”.

Sordel rimase e l’altre genti forme;
ella ti tolse, e come ’l dì fu chiaro,
sen venne suso; e io per le sue orme.

Qui ti posò, ma pria mi dimostraro
li occhi suoi belli quella intrata aperta;
poi ella e ’l sonno ad una se n’andaro”.


Quindi mentre Lucia sposta Dante, così Dante sogna di essere portato da un’aquila. Stando ai trattati medievali sui sogni, questo sembrerebbe rientrare nella tipologia di sogno base, il sogno fisiologico o “somniun corporale“.
Proviamo a mettere ordine tra tutti gli elementi.
Lucia è la seconda dama celeste della staffetta salvifica di Inf. 2, il complotto d’amore ordito per salvare Dante e con lui l’umanità intera. Graziano Bambaglioli (1324) ci dice che “in qua ipse Dantes in tempore vite sue habuit maximam devotionem“. Lucia, banale a dirlo, prima di tutto è Luce. Così come Beatrice è colei che rende beati. Qua appare come vera e propria emanazione di Maria, (più avanti verrà chiamata “donna nel ciel” , proprio come era chiamata la Vergine nel secondo dell’Inferno). Non può sfuggire come “li occhi suoi belli” richiamino gli occhi di Beatrice nel canto secondo dell’Inferno . In questo modo, Lucia assomma a sé le componenti della trinità celeste: è una e trina, i suoi occhi richiamano Beatrice, il suo essere “donna del ciel” rimanda a Maria. E Lucia, ma questa è una mia teoria, potrebbe essere trasversale a tutti e tre i sogni.
Lucia è aquila, anche in una sorta di para anagramma: LUCIA/AQVILA.
L’aquila è un simbolo potentissimo e molto presente all’interno del poema: l’aquila dell’Impero Romano di cui parlerà Giustiniano, imperatore di luce, l’aquila animale di Beatrice, l’aquila dell’Evangelista Giovanni…
E’ un forte emblema poetico, Omero è aquila, signore dell’ altissimo canto (per non mettere in gioco tutte le implicazioni sciamaniche che l’aquila potrebbe richiamare).
A livello psichico abbiamo un sogno di purgazione elevazione,  segno di un passaggio da uno “stato faticoso e tormentato ” (Hillman).
Ma nel viaggio trasformativo alchemico, altra potrebbe essere la rilettura di tutti questi elementi.
L’aquila lasciva in Eneide, comunque conduceva Ganimede “ad sidera” (e non sono le stelle/ninfe ad essere ultima parola chiave di ogni cantica, nella caduta del poema?).
Dante viene trasportato in alto, rapito in cielo così come venne rapito San Paolo e quello che Dante sembra in qualche modo anticipare è la sua propria deificatio, il suo fare esperienza di Dio, proprio come Glauco. Tra l’altro, Gregorio Magno associava l’aquila a Paolo in un suo passo celebre: “Consideramus quam sublimis aquila fuerit Paulus”.
Vediamo i vari miti inanellati assiemediventare verità cristiane (Picone): Lucia integra Teti, divinità oceanina che nel mito raccontato da Stazio aveva fallito la propria missione (così come la Maria invocata da Bonconte andava a integrare la ninfa sempre evocata nella Tebaide).
L’aquila rapace, ingannevole (Ovidio scrive che l’aquila “batté le ali con ingannevoli/mendacibisu penne”), diventa strumento di salvezza. Di elevazione, “alto volo”. Il rapimento del giovane diventa il rapimento del santo. Inoltre Ganimede diventa dio, uomo di luce, ma al tempo stesso è un principe, al quale è legata la discendeza regale dei troiani (e questo lo connette a Dante novello Enea e alla fondazione dell’Impero Romano).
Non solo, la stessa rondine, come acutamente evidenzia Ledda, è simbolo penitenziale, infattinei bestiari e nelle enciclopedie medievali ERA diffusa la notizia secondo la quale se il pulcino della rondine veniva accecato, grazie alle cure della madre, riprendeva la vista. Questo a connotare l’effetto salvifico della penitenza. “Clamore enim hirundinis est dolor poenitentis”.
Quindi tutto acquista un altro significato, nascosto sotto il velo/velame, l’integumentum, dei miti antichi.
Tutto quello che senza chiavi di lettura adeguate potevano essere scelte ornamentali discutibili, inquietanti, equivoche, ora alla luce del cammino di trasformazione e salvezza, diventano anticipazione di quello che andremo a vedere nei regni successivi. Anticipazione del processo di purificazione (la rondine) e di metamorfosi cristiana (Ganimede e l’aquila).
Dante sembra decorare con grande lusso letterario miti di carattere perturbante, scriveva il Bosco. E questa è l’impressione di tutti quegli studiosi che si fermano al valore letterario/terragno e non colgono il valore ardente/anagogico.
E se ci pensiamo bene, attraverso questa integrazione mistica, Zeus ama il suo Ganimede in questo incendio d’amore, così come Dio, fascia Dante di luce e lo ama di una caritas violenta, che addirittura lascia i proprio morsi (e lo vedremo in Par. 26, dove ci sarà a dirlo l’aquila Giovanni).


Questi accostamenti, che possono sembrare poco ortodossi o inopportuni in uno scrittore che ambisce ad essere il più grande poeta cristiano di tutti i tempi, non devono stupire, perché rientrano nelle tensioni proprie del linguaggio mistico. I misteri divini sono indicibili e per questo lo scrittore può ricorrere a symbola dissimilia, immagini sconvenienti o turpi, che vanno a creare cortocircuiti estranianti. In questo modo si rappresenta Dio in modo del tutto inatteso. Il Sacro è laddove meno uno se lo possa aspettare.
Attenzione io non penso, come sostengono in molti, che in questi canti Dante corregga i miti antichi proponendo una verità cristiana, non sono questi canti di superamento; sono canti dove Dante, devoto agli antichi, ne coglie le verità nascoste, inconsapevoli e le va a integrare.
Non è un caso che i miti dal quale Dante attinge in questo canto, riguardino Virgilio (Aurora e Ganimede), Ovidio (Ganimede e Procne), Stazio (Achille e Teti) e in seguito Lucano (Metello e la rupe Tarpea): ovvero il canone di poeti al quale Dante si affiancherà nella sua riscrittura di un poema epico cristiano.

Lettor, tu vedi ben com’io innalzo
la mia matera, e però con più arte
non ti maravigliar s’io la rincalzo.

Dante innalza la materia. Solleva il lettore oltre a sollevare se stesso. Appunto l’arte conduce in alto. Il rapimento è sul piano anagogico, ci trascina alle stelle.

Dante e Virgilio si trovano sotto la porta del Purgatorio, dove vediamo tre gradini di colori diversi e sopra un portinaio, ancora una volta un angelo (già quattro ne abbiamo visti fino adesso e molti altri ne vedremo ancora).

“Dite costinci: che volete voi?”,
cominciò elli a dire, “ov’è la scorta?
Guardate che ’l venir sù non vi nòi”.

“Donna del ciel, di queste cose accorta”,
rispuose ’l mio maestro a lui, “pur dianzi
ne disse: “Andate là: quivi è la porta””.

“Ed ella i passi vostri in bene avanzi”,
ricominciò il cortese portinaio:
“Venite dunque a’ nostri gradi innanzi”.

Ecco un nuovo rituale
L’angelo, cortese, si rivolge come Catone si era rivolto nel primo canto. E credo che sia davvero una scena rituale, come il dramma sacro del canto canto precedente, perché è poco credibile che l’angelo non conosca i piani della provvidenza divina.
Il lasciapassare, come nel primo canto era Beatrice, questa volta è Lucia, “donna nel ciel”. E nell’Inferno il lasciapassare era Maria.
L’angelo è dotato di spada, una spada scenica, liturgica, come la spada degli angeli astori.
Dante deve compiere atti di umiltà, specchiandosi come Narciso sul primo gradino di bianco marmo, e poi gettarsi umilmente e devoto su un secondo nero di pietra ruvida, un terzo di porfido fiammeggiante come sangue che zampilla nella vena e poi la soglia di diamante.
Ovviamente i critici si sbizzarriscono tra lapidari per individuare il rapporto tra colori e tipologia di pietra. Concordo ancora con Ledda che vede nel mix dei vari colori e dei minerali un coerente simbolismo cristologico (“adamas Christus est”, ma anche il richiamo al sangue).
Concordi poi quasi tutti, con sfumature diverse, che in questa scena Dante rappresenti la confessione, una contritio cordis, ma quello che andremo a vedere, a questa altezza di Purgatorio, è una “confessione”, una richiesta di perdono, atti devoti di umiltà, formali non sostanziali. La vera confessione sarà nell’Eden, davanti a Beatrice ammiraglio.

Sette P ne la fronte mi descrisse
col punton de la spada, e “Fa che lavi,
quando se’ dentro, queste piaghe” disse.

L’angelo disegna sulla fronte sette P (di peccato? purificazione?). Ad ogni cornice un angelo penserà poi a “lavarle”. Inizia il viaggio vero e proprio. Inizia il vero divertimento. Qua l’impresa comico/salvifica prende finalmente il volo.
Sulla fronte dell’aurora avevamo visto uno scorpione. Ora abbiamo sulla fronte sette P.
La scena sembra tratta da Ezechiele: (9.3-4) in cui si parla di un prescelto che porterà legato in vita il calamaio (atramentarioum scriptoris) a cui Dio affida il compito di segnare con l’inchiostro sulla fronte dei pochi  giusti di Gerusalemme ai quali sarà risparmiata la vita la lettera tau. E questo rientra in una rilettura metapoetica di un Dante scriba Dei, ma anche qua non in chiave ornamentale letteraria ma in chiave appunto profetica. L’innalzamento di Dante sull’altura è un innalzamento sul piano poetico. Lucia aquila è anche l’aquila astripeta che nel De vulgari eloquentia indicava i poeti fortiti di scienza e arte. Il fuoco che brucia è anche (oltre alla flamma libidinis o al fuoco alchemico anagogico) la fiamma dell’Eneide “mamma” di ardori poetici (così almeno secondo la bella intuizione di Bellomo).
E sempre Ezechiele dirà: “Sicut pullus hirundinis sic clamabo” (diavolo d’un Dante!).
L’angelo ha due chiavi, una d’oro e una d’argento, dono di San Pietro (a riprova che questa porta è già la porta del Paradiso):

“Quandunque l’una d’este chiavi falla,
che non si volga dritta per la toppa”,
diss’elli a noi, “non s’apre questa calla.

Più cara è l’una; ma l’altra vuol troppa
d’arte e d’ingegno avanti che diserri,
perch’ella è quella che ’l nodo digroppa.

Da Pier le tegno; e dissemi ch’i’ erri
anzi ad aprir ch’a tenerla serrata,
pur che la gente a’ piedi mi s’atterri”.

La raccomandazione è chiara: meglio sbagliare per clemenza nell’aprirla che per severità tenerla chiusa.
Ancora una volta l’amore esonda. Non segue logiche di risarcimento infernale. Siamo lontani dalla giustizia mostruosa di Minosse. Ora siamo nel regno scandaloso dell’amore.
I due poeti non devono girarsi a guardare indietro, bisogna essere “torri ferme”, focalizzate sull’obiettivo, da adesso in poi non ci saranno più invischiamenti.
Dante novello Lot. Dante nuovo Orfeo. Ma questa volta ce la farà. La lezione è stata appresa.


Poi pinse l’uscio a la porta sacrata,
dicendo: “Intrate; ma facciovi accorti
che di fuor torna chi ’n dietro si guata”.

E quando fuor ne’ cardini distorti
li spigoli di quella regge sacra,
che di metallo son sonanti e forti,

non rugghiò sì né si mostrò sì acra
Tarpëa, come tolto le fu il buono
Metello, per che poi rimase macra.

Io mi rivolsi attento al primo tuono,
e ’Te Deum laudamus’ mi parea
udire in voce mista al dolce suono.

Tale imagine a punto mi rendea
ciò ch’io udiva, qual prender si suole
quando a cantar con organi si stea;

ch’or sì or no s’intendon le parole.


Ruggisce la porta sacra e dentro si ode un ineffabile Te Deum, trailer delle indicibili musiche celesti. Il suono dei cardini produce il suono come quello della rupe Tarpea. L’episodio si riferisce a Cesare che vuole impossessarsi del tesoro pubblico, vincendo la vana resistenza di Metello (Phars. III 151-168; 136-138).
Ma se il tesoro custodito dalla rupe è materiale, ben altro è il tesoro che Dante riceverà senza violenza alcuna:

Quivi si vive e gode del tesoro
che s’acquistò piangendo ne lo essilio
di Babillòn, ove si lasciò l’oro.


Paradiso 23.133-135

L’esilio preannunciato da Corrado Malaspina diventerà occasione di godimento. E che questo tesoro sia proprio il tesoro di cui si parlerà in Paradiso 23 lo abbiamo caro anche dalla menzione alle doppie chiavi di San Pietro, qui presenti:

Quivi trïunfa, sotto l’alto Filio
di Dio e di Maria, di sua vittoria,
e con l’antico e col novo concilio,
colui che tien le chiavi di tal gloria.

Paradiso 23.136-139

Giungiamo alla conclusione di questo canto così denso di anticipazione con quello che verrà. Su questa soglia facciamo già le nostre prove tecniche di Paradiso, ma nel poema sacro, “tutto è Paradiso”.

Un’ultima cosa: i sogni si interpretano. Da Daniele profeta in poi. Ben prima di Freud. Questo lo sapevano bene gli uomini medievali. Ed esistevano manuali utili per interpretare i sogni. Testi divinatori come il Somniale Danielis o l’Oneirocriticon dello Pseudo-Achmet erano testi comunque popolari.
E appunto leggiamo che “Si quis videat se in scapulis aquilae portari, Rex inveniet in regno suo altitudinem, et vitae longitudinem. Si popularis hoc videat, Rex erit procul dubio”.

Così interpreta Ambrogio Camozzi Pistoja: “Secondo il testo latino, dunque, se un popularis sogna di essere trasportato da un’aquila rex erit procul dubio. La chiave sembra dunque funzionare per Dante dal momento che, trascorsi due giorni dal sogno, egli diviene re. Si ricordi infatti l’ultimo verso del XXVII canto, il rintocco conclusivo delle parole di Virgilio al figlio: «per ch’io te sovra te corono e mitrio» (XXVII 142).
Dante sarà il nuovo Adamo, re del Paradiso Terrestre, in unione mistica con Matelda. Dante è davvero il nuovo Ganimede, il nuovo regius puer, il nuovo fanciullo divinizzato dal quale deriverà un nuovo Enea, un nuovo impero e un nuovo Veltro.

4 pensieri su “PURG. IX – prove tecniche di Paradiso

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