PURG. VI il canto dei vinti

Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;

con l’altro se ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente;

el non s’arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.

Tal era io in quella turba spessa,
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
e promettendo mi sciogliea da essa.

“Quando si separano i giocatori alla fine del gioco della zara, quello che ha perso rimane da solo e addolorato, mentre ripensa alle giocate fatte e impara tristemente; tutta la gente segue il vincitore; quello tira dritto, e uno gli si mette di fronte, un altro lo tira da dietro, un altro lo segue affiancandolo; quello non si ferma e ascolta l’uno e l’altro; dà la mancia a uno e questo non lo assilla più, e così di difende dalla calca. Così facevo io in mezzo a quella folla di anime, volgendo il viso a loro qua e là, e promettendo mi separavo dalla calca.”

Continuiamo a restare con le anime sostanti in questa sorta di terminal antipurgatoriale. Siamo ancora sotto l’influsso di Palinuro e vi rimarremo ancora per un po’.
La zara, dall’arabo zahr, è un gioco a dadi diffuso nel Medioevo.
Rispetto alla chiusa elegiaca, soffusa, quasi in penombra del canto precedente, qui l’apertura è di natura comico realistica.
Ci sono due giocatori. Uno che vince. L’altro che perde. Uno viene acclamato dalla folla, l’altro resta da parte, “tristo” e “dolente”, “repetendo le volte”, ossessionato dai tiri fatti, illudendosi di avere finalmente appreso i segreti vincenti (che già Dante avesse coscienza di quello che sarebbe stato il morbo ludopatico?).
Così è Dante, che come avevamo visto, a partire dalla consapevolezza della propria ombra (già in Purg. 3), diventa oggetto di richieste da parte delle anime negligenti, che indugiano sulla spiaggia sottostante il monte. Vivi e morti sono in dialogo. E Dante, mercuriale e psicopompo, ne è ponte.
Ma questa similitudine appare molto più misteriosa  (e calzante) di quanto possa sembrare.

Prima di tutto, se Dante è colui che vince. Chi è colui che perde?

Ormai frequentando con un po’ di familiarità i canti danteschi, ho iniziato a vedere spesso negli incipit, nei “cominciamenti”, qualche indizio che può essere utile per orientarsi all’interno del labirinto.
La parola chiave è “parte” nella sua valenza etimologica di “dividere”. Ricordiamo la “città partita”, la città frantumata, scissa, piagata di Inferno 6, canto parallelo a questo.

Perché i canti sesti, ci hanno insegnato a scuola, sono i canti di natura politica. Anche se questo è un altro riduzionismo. Come se il canto primo dell’Inferno, o il canto dei simoniaci, o il canto bestiale di Purgatorio quattordici non fossero altrettanto politici. Questa è la visione critico-mistico-politica, ben individuate da Gianni Vacchelli. I canti della Commedia sono veltro, antidoto al virus della lupa.
Ma è indubbio che i canti sesti siano più focalizzati su una dimensione politica: Firenze nella prima cantica, l’Italia nella seconda, l’Impero Romano nel discorso sfolgorante di Giustiniano, imperatore di luce.
Sei, perché sei è il numero dell’uomo e dell’umano (anche nella sua dimensione dia-bolica, separante). Sesti, perché il mondo è ormai fuor di sesto, fuor dei binari, e sta a Dante (e a noi) rimetterlo nella giusta direzione.
Come può esserci unità, pace e giustizia, dove ci sono fazioni e fratture? E chissà cosa Dante avrebbe detto pensando ai nostri “partiti”.

Segue una lista di altri morti di morte violenta, una rassegna sdrammatizzata, risolta epigraficamente (Inglese). A collegare le anime è il fatto che quasi tutte siano vittime di guerre intestine che dilaniavano le città toscane.
Il riconoscimento da parte delle anime della condizione di assoluto privilegio di Dante è festoso. La calca della “turba spessa” ricorda la plurima turba attorno a Museo, nei Campi Elisi (Aen. VI, 667-78). Dante è un nuovo Museo, l’otpumus vates, il poeta teologo, come osserva giustamente Bellomo a partire dal commento di Servio all’Eneide. Il tono appunto comico fa scivolare la tonalità dalla tragedìa virgiliana alla portata salvifica del poema cristiano.
Libero dalle varie ombre, Dante chiede a Virgilio come sia possibile che “decreto dal cielo orazion pieghi”. Com’è possibile con le preghiere “piegare” il volere divino? La domanda è posta giustamente a Virgilio, perché queste sono le parole che Sibilla rivolge proprio a Palinuro: “Desine fata deum flecti sperare precando” (Aen. VI, 376). Enea, l’eroe pagano, non può portare con sé l’insepolto nocchiero.

Ed elli a me: «La mia scrittura è piana;
e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana;

ché cima di giudicio non s’avvalla
perché foco d’amor compia in un punto
ciò che de’ sodisfar chi qui s’astalla;

e là dov’io fermai cotesto punto,
non s’ammendava, per pregar, difetto,
perché ‘l priego da Dio era disgiunto.

Veramente a così alto sospetto
non ti fermar, se quella nol ti dice
che lume fia tra ‘l vero e lo ‘ntelletto.

Non so se ‘ntendi: io dico di Beatrice;
tu la vedrai di sopra, in su la vetta
di questo monte, ridere e felice».

Contrario è il privilegio di Dante. Ma non solo di Dante. Di tutti coloro che sono in vita. Pensiamo solo all’umile Nella di Forese.
A Bonconte era bastata una semplice “lacrimetta” per ottenere l’intervento dell’angelo di Dio. I fata deum della Sibilla non sono irremovibili. Dante riscrive e supera il mito di Palinuro e l’adatta alla nuova logica “comica”. Dante è un nuovo Enea. Bonconte e tutte le anime penitenti possono accelerare il loro ingresso tra le cornici purgatoriali grazie alle preghiere dei viventi. Tra i morti e i vivi, per la prima volta, si instaura una relazione, una dinamica, una interazione.

Così scrive la Chiavacci Leonardi nel suo commento: “come possa la preghiera dell’uomo modificare – ottenendo una riduzione di pena – il decreto inappellabile di Dio. Questo passo è necessario a Dante per fondare, fin dagli inizi della cantica, la dottrina dei suffragi, che, come si è visto, è così importante in tutto lo svolgimento del suo Purgatorio; dottrina finora soltanto enunciata (III 145; IV 133-5) e che ora riceve una sicura base teologica, con l’appello a quel principio cristiano così caro all’autore del poema (e che sarà arditamente ripreso a Par. XX 94-9) per cui la forza dell’amore dell’uomo può modificare i decreti di Dio senza lederne la giustizia, compiendo in un punto ciò che si dovrebbe pagare in lunghi anni di pena”.
Ma questa è la nuova scandalosa logica dell’amore esorbitante di Dio. In fondo, non era già dal canto II dell’Inferno, che Maria aveva “franto” il giudizio duro di Dio?
Con insistenza quasi puntigliosa, a partire dallo scandalo di Catone, passando da Manfredi scomunicato, fino alla lacrimetta che salva Bonconte, Dante con forza ci fa capire che le regole sono cambiate. Che siamo ben lontanti dalla giustizia mostruosa di Minosse. Che ora siamo davanti ad un Dio, che come vedremo alla fine: “s’aperse in nuovi amor l’etterno amore”.

La scrittura di Virgilio è “piana” come “soave e piana” era la voce di Beatrice. Non c’è errore. C’è integrazione. C’è una nuova idea di divino. Più larga. Più aperta. Che si inclina verso l’umano e lo incontra.

Maestro e discepolo riprendono la strada.
Ma vedi là un’anima che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda:

quella ne ‘nsegnerà la via più tosta».
Venimmo a lei: o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa

e nel mover de li occhi onesta e tarda!
Ella non ci dicea alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando

a guisa di leon quando si posa.
Pur Virgilio si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita;

e quella non rispuose al suo dimando,
ma di nostro paese e de la vita
ci ‘nchiese; e ‘l dolce duca incominciava

« Mantüa…», e l’ombra, tutta in sé romita,
surse ver’ lui del loco ove pria stava,
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello

de la tua terra!»; e l’un l’altro abbracciava.

Un’anima soletta, in disparte, (proprio come era Catone, proprio come sarà Matelda) potrebbe essere la più indicata a indicare la strada. Prima ancora di poterla conoscere, Dante già la conosce. Dante già si rivolge a lei, “anima lombarda”.
L’anima si presenta “a guisa di leon”, ma non siamo più nella dimensione infernale del Leone/Superbia delle tre fiere, siamo in fase di trasformazione. Il leone è simbolo di regalità. E’ figura del Cristo. “Il ricordo biblico del leone di Giuda («requiescens accubuisti ut leo»: Gen. 49, 9) dà solennità sacrale a quel solitario spirito, preannunciando il grande testo profetico che tra poco seguirà” (Chiavacci Leonardi). Nell’innografia tradizionale il leone è associato alla conquista di Gerusalemme, così come all’opposizione fra la libertà recuperata e la precedente condizione di servitù e pianto (Maurizio Perugi).
Chiaro che questo già anticipa quello che sarà poi il piatto forte del canto, ovvero il tema della “serva Italia”. Non solo. Nell’Epistola V, 4 Dante saluta Arrigo VII, come il nuovo Mosé mandato dal leone di Giuda (“Arrexit namque aures misericordes Leo fortis de tribu Iuda; atque ullulatum universalis captivitatis miserans, Moysen alium suscitavit”, “Il forte leone della tribù di Giuda ha infatti drizzato orecchie di misericordia e provando compassione di fronte all’ululato di tutti i prigionieri ha suscitato un altro Mosè”).
Virgilio chiede indicazioni. L’anima chiede a sua volta da dove venga. Basta un “Mantüa” (a echeggiare il “Mantua me genuit” del proprio epitaffio) perché ci sia un riconoscimento tra i due.
Quel “Mantüa” è ambiguo: congiunge tanto il latino di Virgilio che il volgare. E’ il punto d’incontro tra due lingue (e questo lo vedremo in modo più ampio nel canto successivo, dove vedremo di fatto l’eredità poetica di Virgilio sulla poesia volgare e trobadorica).
Non solo, ci sia un abbraccio. L’abbraccio impossibile tra Casella e Dante, l’abbraccio impossibile tra Virgilio e Stazio, qui invece viene sugellato.
Siamo tra due compatrioti. Due mantovani. Virgilio e Sordello.

Sordello, appunto.
Trovatore, di Goito, fu a Verona presso Rizzardo da San Bonifacio e nel 1226 ne rapì la moglie, quella Cunizza che rifulgerà tra le gemme di Venere. In seguito sarà alla corte di Raimondo Berengario, in contatto con Romeo da Villanova (il quale incontreremo in Paradiso 6, canto simmetrico a questo). Tra i suoi componimenti, forse noto a Dante è il planh per la morte di Blacatz (ma ci torneremo).
La questione è: cosa ci fa qui Sordello? Quale la sua funzione? Perché una presentazione così solenne, con addirittura richiami biblici?
Sordello sarà presente e guida fino al canto ottavo. Rientra tra i morti di morte violenta? Rientra nella schiera dei Principi Negligenti che incontreremo nel canto successivo? Maria Luisa Meneghetti, in una sua lectura del canto, molto approfondita e ricca di spunti, denota che Sordello era noto per un’eccessiva e sfortunata attrazione per il gioco d’azzardo.
Che sia lui il perdente nel gioco della zara ad apertura di canto?
Aimeric de Pegulhan compone un sirventese dove scrive: “Ma non lo dico contro messer Sordello (…)/e non va a caccia di favori,/come fanno queli onorevoli saputelli;/ma se manca chi gli fa credito/non può trasformare un cinque o un sei in una terna”.

In quanto trovatore continua quella linea che era iniziata con Bertran de Born e proseguirà con Daniel Arnaut e con Folchetto.

Dall’altra parte questo è un altro poeta guida che incontreremo nel Purgatorio, a porsi come punto intermedio tra Virgilio e Dante. Con Virgilio condivide la “mantovanità”, con Dante l’essere destinato alla salvezza. L’altro sarà Stazio, anch’egli intermedio tra Dante e Virgilio. Doppio ora dell’uno e ora dell’altro.
Studieremo Sordello anche nei canti successivi e proveremo ad aggiungere qualche altro tassello per intenderne appieno la “rotondità”.
Quello che a noi ora interessa è questo abbraccio patriotico tra Virgilio e il suo compaesano Sordello, due mantovani che si riconoscono e abbracciano, come se fossero due turisti che si ritrovano in terra straniera. Da questa unione inizia la seconda parte del canto, il monologo appassionato, la “digression”, il grido vero e proprio del profeta.

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!

Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;

e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.

Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.

Che val perché ti racconciasse il freno
Iustiniano, se la sella è vota?
Sanz’esso fora la vergogna meno.

Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,

guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.

I versi sono famosissimi. Sono versi da recital. Ma spesso vengono letti senza la parte che viene prima. Senza l’abbraccio. L’E senza abbraccio manca la dimensione purgatoriale. Manca la giusta integrazione di una componente ormai malata verso il proprio necessario antidoto.

L’Italia è serva?
Di chi?
Di sé stessa. Dei propri vizi. Della propria brama lupesca. Non è serva di nessuno, per questo è puttana. Manca un imperatore, manca un potere sovranazionale che possa garantire la giustizia, e quindi la pace. L’Italia è una nave senza nocchiero (Palinuro?). È un cavallo senza cavaliere.
L’immagine è virgiliana, dal libro primo dell’Eneide, riferendosi ai venti ribelli, ai quali Giove ha imposto un re, Eolo, perché li domasse con rigide norme, “tirando o allentando le redini”. In Convivio leggiamo che l’Imperatore “sia lo cavalcatore de la umana volontade. Lo quale cavallo come vada sanza lo cavalcatore per lo campo assai è manifesto, e spezialmente ne la misera Italia, che sanza mezzo alcuno a la sua governazione è rimasa”. E persino la Chiesa, che dovrebbe condurre il cavallo a piedi (in segno di subalternità per quanto riguarda le questioni civili), anch’essa si è fatta ribelle, impadronendosi delle briglie (“la predella”).
L’Italia è un giardino in miseria. Abbandonato. La rovina è causata dalle casate magnatizie, dalle lotte fratricide, vere e proprie saghe tebane, guerre civili costanti, e la desolazione di Roma. Roma che viene presentata come “vedova e sola”, richiama le lamentazioni di Geremia. Il poeta diventa profeta, guida civile, nuovo Cesare!
Nell’Epistola XI, rivolta ai cardinali italiani, Dante così scrive: “Come sola (sola) siede la città piena di popolo! È resa quasi vedova (vidua) quella che fu signora delle genti”.
Ma anche di più: nel primo libello, la Vita nova, alla morte di Beatrice così scrive il poeta (miei i corsivi), “Poi che fue partita da questo secolo, rimase tutta la sopradetta cittade quasi vedova dispogliata di ogni dignitade; onde io, ancora lagrimando in questa desolata cittade, scrissi a li principi de la terra alquanto de la sua condizione, pigliando quello cominciamento di Geremia profeta che dice: Quomodo sedet sola civitas“.
Firenze senza Beatrice è una città vedova e sola. Una città morta, da lamentazione biblica. E questo è interessante perché Beatrice è sì il nucleo spirituale ardente di un percorso di trasformazione, ma è anche il nucleo politico. E questo sarà evidente negli ultimi canti del Paradiso Terrestre, quando Beatrice criticherà la storia in chiave apocalittica attraverso la processione mistica.
“Beatrice” come nome compare per la prima volta nella seconda cantica in questo canto e compare per la prima volta in tutto il poema in rima.
So che possono sembrare inutili complicazioni, ma questo rende l’idea di quanto stratificato sia il pensiero dantesco e denso nell’intersezione di tutti i temi che vengono portati coerentemente. In altre parole, un’Italia senza la luce di Beatrice è un’Italia destinata alla fine.
Che cosa sia Beatrice è chiaramente un mistero che ancora stiamo indagando e che indagheremo assieme.

E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?

Dante si erge a censore, e può permetterselo tale è la sua statura civile e morale. E quella che Dante descrive è una penisola logorata in lotte di fazione, un elenco di città intristite e incattivite… con una Roma, vedova, abbandonata nel lutto e nella desolazione. Il tono è amaro e sarcastico. L’accusa coinvolge tutti, Impero (Alberto Tedesco), Chiesa, persino Dio.
E chissà se Montale, in quel “Giove… crocifisso” non abbia tratto ispirazione per il suo “giove è sotterrato”. Questi sono i misteriosi palinsesti attraverso i quali dialogano i poeti.

O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?

Ché le città d’Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.

Tutte le città d’Italia sono piene di tiranni e chiunque può essere un “Marcel”, un Marcello. Il riferimento è a Caio Claudio Marcello, avversario di Cesare e seguace di Pompeo. L’allusione è alla Pharsalia di Lucano. Ma la Pharsalia è il testo per eccellenza delle guerre civili. Ma a noi interessa soprattutto quel “parteggiando”.
Ricordate da dove eravamo partiti?
Dal “quando si parte il gioco de la zara”. Ecco il problema: la partizione. Una città scissa, frantumata, lacerata. Nel canto precedente erano i corpi di Jacopo o di Bonconte lacerati, o forati. Là le anime cercavano un’integrazione tra spirito e carne. Qui è il corpo simbolico di un paese totalmente lacerato. Non ci sarà interezza politica e individuale se la logica sarà sempre e solo quella lupesca della partizione e dello spartirsi.

Ultima ma non ultima non poteva che essere quella Firenze matrigna, ladrona, nucleo di ogni male.

Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.

Il discorso si inasprisce e al culmine chiude il sipario, sfinito dall’indignazione.

E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,

ma con dar volta suo dolore scherma.

Firenze ti vedrai somigliante a quella donna inferma, ammalata, che non trova pace, che si rigira nel letto e nel girarsi prova a schermirsi dal proprio dolore.
Ma attenzione! Firenze, donna inferma va a contrapporsi proprio a Dante che deve essere “torre ferma, che non crolla /già mai la cima per soffiar di venti”. Il Dante firmus, saldo, si contrappone alla città irrequieta. Dante resiste ai venti, mentre l’Italia è in balia dei venti ribelli, non più dominati da Eolo. Tutto sembra avere un senso.

Chi è che vince?
Dante.
Chi perde?
Firenze.
Ma non solo. Sono tutte le città partite, scisse, frantumate che perdono. A perdere siamo tutti noi quando entriamo in una dinamica dia-bolica, separante.
L’Italia è serva. Nel canto primo era “umile”. Proprio come Maria, “umile e alta”.

Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.

Quell’Italia per cui moriranno la vergine Camilla, Eurialo e Niso, non può essere un’Italia miseranda e bassa. Come giustamente osserva Giorgio Inglese abbiamo un intreccio di martiri italici: Camilla eroina dei Volsci, Turno re dei Rutuli, inserito – simbolicamente – quasi intrecciato con i due teucri Eurialo e Niso. Perché alla fine possiamo anche farci tutti guerra l’uno contro l’altro, ma sotto il regno della Lupa siamo tutti a perire.
Tutti noi siamo i vinti.
E forse rimarrà solo vincitore Dante, proprio come a inizio canto, ma nel deserto dove lo abbiamo relegato, afono, inascoltato, questa volta, sarà lui ad essere solo.