E m’incresce di me – nonsolocommedia

“Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce quasi a uno medesimo punto, quanto a la sua propria girazione, quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice li quali non sapeano che si chiamare”.
Sappiamo che il primo incontro tra Dante e Beatrice avviene nella Vita nova. Dante vede la sua donna a nove anni. E da qui esploderà un mondo poetico che troverà il suo culmine nella Commedia.

Ma abbiamo forse un’altra poesia, fuori dal circuito della Vita nova, che potrebbe raccontarci qualcosa di ancora più sorprendente.

E’ m’ incresce di me sì duramente
ch’ altrettanto di doglia
mi reca la pietà quanto ‘l martiro,
lasso, però che dolorosamente
sento contro mia voglia
raccoglier l’ aire del» sezza’ sospiro
entro ‘n quel cor che i belli occhi feriro
quando li aperse Amor con le sue mani
per conducermi» al» tempo che mi sface.

Questo è l’incipit di un componimento che vede un agire di una donna su Dante ancora più squassante.
Dante ci dice di sentire una sorta di blocco psichico e energetico. Un arresto di ogni facoltà. Un black out dei sensi. Tutto spento.

Una morte leggera.

E questo avvenne nel momento in cui la donna amata “viene al mondo”.
Chi ami viene al mondo e tu muori dentro. Perché amore è prima di tutto questo. Specie se in giovanissima età.
Questo racconta Dante.

Lo giorno che costei nel mondo venne,
secondo che si trova
nel libro de la mente che vien meno,
la mia persona pargola sostenne
una passion nova,
tal ch’ io rimasi di paura pieno;
ch’ a tutte mie virtù fu posto un freno
subitamente, sì ch’ io caddi in terra,
per una luce che nel cuor percosse:
e se ‘l libro non erra,
lo spirito maggior tremò sì forte
che parve ben che morte
per lui in questo mondo giunta fosse:
ma or ne incresce a quei che questo mosse

In questa poesia non viene fatto il nome di Beatrice, come ad esempio nel “Lo doloroso amor che mi conduce” che abbiamo già visto.
Noi non possiamo dire con assoluta certezza che “costei che venne al mondo” sia per forza Beatrice. Ma ci sono indizi che ci fanno pensare che questa poesia parli di Beatrice. La Beatrice della Vita nova. La Beatrice di un amore che è sentito come potenza irresistibile, violenza. Ad esempio il riferimento al “libro della mente” che richiama “il libro della memoria” con il quale prende avvio la Vita nova.
Ma quello che interessa è che questo amore “percuote”.

E se ci pensiamo, quando Ulisse naufraga dopo aver avvistato la “montagna bruna” in mezzo all’oceano, oltre le colonne d’Ercole, è solo perché:

… de la nova terra un turbo nacque,
e PERCOSSE del legno il primo canto.

Così come alla fine della Commedia, proprio nel momento in cui finalmente Dante riesce a vedere Dio, si ritrova in un altro black out:

ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu PERCOSSA
da un fulgore in che sua voglia venne.

Riprendiamo le fila.
In una poesia giovanile Dante dice che quando era una “persona pargola”, nel momento stesso in cui la donna amata “al mondo venne”, ebbe una crisi. Una percussione. Un arresto di tutte le sue facoltà.
Questo era amore.
Che cosa intenda con “venire al mondo” non è ben chiaro. I critici propongono varie soluzioni: la nascita? L’entrata in società? La fine della puerizia e l’entrata nell’adolescenza?

Non importa.

Importa che questo trauma sia un trauma giovanile.
Io penso di averlo provato più e più volte un amore così grande che quasi non riuscivo a contenerlo dentro?
Un’emozione così forte che mi sembrava quasi di avere la pelle scorticata? Di essere vulnerabile al mondo esterno? Roland Barthes, nel suo “Frammenti di un discorso amoroso” troverà parole molto efficaci per descrivere questo “scorticamento” amoroso. Questo essere esposto. Erogeno. Vulnerabile.

Questo dice Dante di Beatrice. Beatrice viene al mondo e Dante sbarella. E già solo a distanza, indirettamente, acerba, Beatrice appare in tutta la sua gran potenza.
Questa Beatrice non è rassicurante. Non è delicata. È una Beatrice a tratti terribile. Spaventosa.

Una Beatrice Dea. Una Beatrice mostro.
Dante è ancora un bimbo e già sente tutto questo.
Eppure, il Dante maturo, il Dante che deve trovare le parole per descrivere l’esperienza di vedere Dio, esperienza che non può avere parole, il Dante quasi alle soglie della morte, appena deve dire quel troppo che sconquassa, che lacera, che non sappiamo tenere dentro di noi, arriva a usare la medesima immagine.

ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu PERCOSSA
da un fulgore in che sua voglia venne.

Che potrebbe forse anche riecheggiare:

subitamente, sì ch’ io caddi in terra,
per una luce che nel cuor PERCOSSE

E questa esperienza, di un Dante graziato, amato da donne celesti, soprannaturali, colmo di tutte le virtù, cardinali e teologali, questa esperienza di vittoria arriva a coincidere con il grande fallimento di Ulisse che naufraga, giusto a un palmo dal Purgatorio.
Ecco, io credo che su questo asse ci sia tanto di Dante. E forse anche di me. Credo che questo sia il grande mistero e il grande fascino della sua poesia.
Il far coincidere un’esperienza domestica, l’amore di un bimbo verso una bimba, con l’esperienza mistica per eccellenza, quello che forse tutti i santi e le sante avrebbero voluto in vita, il poter guardare dritto in faccia Dio. Ficcargli gli occhi dentro. Come poi dirà.
Il bimbo innocente, incosciente, il pargolo, e il grande filosofo, il grande poeta, il grande teologo si incontrano e coincidono.

In quel venir meno.
In quel cadere giù.

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