Essere in Beatrice (Purg. 30.73)

Stiamo ancora un po’ su Beatrice (ma in realtà, a breve vedremo che staremo “dentro Beatrice”).


Purgatorio 30.
Il canto dell’incontro. Sulla cima del monte, “nel mezzo” del Paradiso Terrestre, dove la “selva oscura” si trasforma in “selva antica”.
Dopo ben 63 canti di attesa e dopo aver visitato anime dannate di ogni tipo e anime espianti i sette peccati capitali.
L’incontro dovrebbe essere il punto più alto dell’amore, il ricongiungimento di due anime destinate ad amarsi, e invece quello che avviene diventa un’esperienza traumatica. Prima di tutto, l’arrivo della Santa è annunciato da una fantasmagorica quanto inquietante processione.
Questa parade psichedelica e selvaggia attinge a man bassa dal Vecchio e dal Nuovo Testamento, e non è difficile ricavarne i riferimenti biblici, ma al tempo stesso appare come una gloriosa teofania, la discesa degli Dèi, nel centro di un cerchio/mandala.

A questo aggiungiamo un profluvio di fiori, angeli che cantano e da una “nuvoletta” la discesa trionfante di una Dama velata, “sotto verde manto/ vestita di color di fiamma viva”, scatenando i sintomi dell’antico amore:

E lo spirito mio, che già cotanto
tempo era stato ch’a la sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto,

senza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d’antico amor sentì la gran potenza.

(E il mio spirito, che era stato già tanto tempo senza tremare, colpito dallo stupore per la sua presenza, anche senza vederla con gli occhi, grazie a una virtù occulta che mosse da lei, sentì la grande potenza di un antico amore.)

L’amore che Dante riconosce dentro di sé è un amore ardente, che brucia.

… Men che dramma
di sangue m’è rimaso che non tremi:
conosco i segni de l’antica fiamma.

(Non mi è rimasta neppure una goccia di sangue che non tremi: conosco i segni dell’antica fiamma amorosa.)

Ma in questa terzina si incontrano e fanno cortocircuito sia l’eco della Didone virgiliana (“Adgnosco veteris vestigia flammae”/ “riconosco le vestigia dell’antica fiamma”), che la superbia di Ulisse (“Lo maggior corno de la fiamma antica”). Quindi al tempo stesso un amore che salva, ma anche un amore che potrebbe essere mortifero. È dalla “schiera” di Didone che apparvero volanti le anime lussuriose e inquiete di Paolo e Francesca. Ma qua entreremmo in letture simultanee al momento pericolose.

Stiamo a Beatrice, stiamo in Beatrice: ovvero stiamo su come la Santa si presenta.

“Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?”

Prima un po’ di numerologia.
Questo è il verso 73esimo, e ovviamente 7+3 dà 10, numero divino pitagorico per eccellenza. Così come “Dante” viene chiamato per la prima volta dalla Dama Celeste, in questo canto, al verso 55 (5+5=10).
Ma se pensiamo che questo è il canto 30 (3×10), 64 esimo canto (6+10) nell’economia generale, dopo appunto 63 canti (6+3=9) con a seguire 36 canti per finire (3+6=9) dove il 9 è il numero di Beatrice, già nella Vita nova, capiamo che tutto rientra in un progetto ben più ampio, consapevole e raffinato.
Ma andiamo oltre.
Stando a questo testo, proposto dal Petrocchi, e confermato nel commento di Inglese per Carocci, e parzialmente nella revisione di Enrico Malato (il quale sostituisce “Guardaci” con “Guardami”) troviamo questo endecasillabo dalle vicende redazionali molto tormentate.
“Guardaci ben son/ben sem/ben ben/ son ben/se ben sem”

Se stiamo al verso dell’edizione Petrocchi, quello che a me sembra di vedere una sorta di somiglianza con la presentazione della sirena/femmina balba nel secondo sogno purgatoriale.


«Io son», cantava, «io son dolce serena»

Ma Dante, ormai lo abbiamo capito, non è il poeta delle opposizioni, ma è il poeta delle integrazioni. Nascosta nella figura di Beatrice vediamo presente anche la stessa anti-Beatrice (simultaneamente, perché così agisce il simbolo).
«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice» /«Io son», cantava, «io son dolce serena».
Ben son… ben son… io son… io son…, in entrambe le donne, nella santa quanto nella strega, noi sentiamo un canto ipnotico colmo di seduzione.



Ma se la soluzione fosse un’altra, ancora più bella e complessa. Se il verso fosse in realtà un altro?
E qui riporto la bellissima suggestione di Federico Sanguineti nel suo “Temi svolti di storia letteraria” (pagg. 23-25): “Guardaci ben, se ben sè ’n Beatrice!”. Ecco undici sillabe, direi le più straordinarie di Dante, ma insopportabili al gusto borghese, e quindi compromesse, fraintese, manomesse da copisti e filologi, i quali leggono: “Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice” o “Guardaci ben! Ben sem, ben sem Beatrice” (entrambe banalizzazioni da manuale), “Guardati ben! Ben sembri Bëatrice (errore congiuntivo di una famiglia di codici). Ma, grazie al cielo, la lezione genuina è compattamente conservata dal ramo beta della tradizione: Urbinate 366, Urbinate 365, Florio ed Estense”.
Sempre sulla scia di Sanguineti, la Santa arriva dire: “Guarda bene se sei dentro di me. Come fai a piangere se sei un me, nel paradiso terrestre?”

E Francesco Buti, commentando l’inleiarsi di Paradiso 22, commenta: “illeare ène in lei entrare”.

Così scrive Gianni Vacchelli, nel suo “Dante e l’iniziazione femminile“: “Dante lavora a una integrazione e a una rettificazione del femminile. Non si tratta solo di una sublimazione di un femminile oscuro, terragno, umido e pericoloso verso una idealizzazione quintessenziata. Questo non lo libererebbe, ma continuerebbe solo a polarizzarlo tra un femminile tentatore e uno angelicato (puttana-santa/madre). Quella dantesca è una complessa operazione che vuole elevare l’energia più spessa, verticalizzandola e non solo rarefacendola. Il femminile di Dante va verso un suo compimento di potenza amorosa e conoscitiva, non edulcorata”.


Conclude Sanguineti: “Al funereo colpo di fulmine, di un amore che “ratto s’apprende”, perché irresistibile (“a nullo amato amar perdona”), ovvero il top per l’estetica borghese (e che conduce “ad una morte”), urge contrapporre il punto di vista opposto, quello vitale di Dante che, in tempo di resurrezione, celebra il piacere. Coi migliori auguri di uscire sempre dall’Egitto, cioè di una Pasqua quotidianamente vivibile, si rinviano lettrici e lettori alle pagine della teologa Maria Caterina Jacobelli dedicate a Il risus paschalis e il fondamento teologico del piacere sessuale“.

E quale immagine più bella. Sì, Beatrice arriva “ammiraglio“, “Minerva“, punitrice e maschile, ma al tempo stesso, mostra una nuova forma d’amore, simbiotica ma non tragica o cavalcantiana, un amore che può sostenere la luce, può sostenere l’integrazione del proprio maschile, un fare anima.
Dante cresce. Si completa. Matura.

Dante s’inbeatricia.


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