INF.V – O del falso amore

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«O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,

«guarda com’entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!»

Questo dirà Minosse, giudice infernale, nel vedere entrare un vivente nel regno dei morti senza speranza. Lo ammonisce, guardati come entri, guardati dalla tua guida! Questo dico io ora a voi. Lo so che questo è il canto per eccellenza dell’amore romantico, so che questo è il canto appassionato di Paolo e Francesca, ma non lasciatevi ingannare da candide colombe, da versi galeotti e da baci rubati… questo è il primo vero canto dell’Inferno. Qui incominciano le dolenti note. Qualunque cosa vedrete e sentirete non dimenticatevi mai che questi sono dannati. Nonostante il poeta faccia qualsiasi cosa pur di muovervi a pietà.

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia,
e tanto più dolor, che punge a guaio.

Finalmente i due scendono dal primo cerchio al secondo, dove inizia l’Inferno vero e proprio. E come discendono? “Così”. Così come? Non è detto. Se torniamo alla pagina precedente vediamo Maestro e Allievo allontanarsi dai poeti pagani. Dove è spiegato quel “così”? In una zona del testo che noi non possiamo conoscere. Una zona affascinante tra un canto e l’altro che chiameremo d’ora in poi intercanto, ovvero un luogo misterioso dove si annidano tutte le speculazioni dei critici. Me compreso, critico per diletto e quindi dilettante.

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.

Altra creatura superbamente scolpita, che ci appare davanti agli occhi all’improvviso. Le anime si presentano dinnanzi a lui, si confessano, o meglio, si umiliano ulteriormente in una confessione del tutto superflua, perché confessare significherebbe ottenere perdono e a questo punto nessuno perdona più nessuno. Il giudice/custode con dei giri di coda designa il girone al quale tali anime sono condannate. Tre giri? Terzo cerchio. Nove giri? Nono cerchio e così via.
Problema da critici: quanto sarà lunga la coda di Minosse? I critici su queste cose non ci dormono la notte. In realtà il problema è un altro: perché Minosse dovrebbe avere la coda? A prescindere dalla lunghezza, Minosse appare con tratti ferini, è orribile a vedersi, ringhia (come un cavallo o come un porco, chiosava il Buti, commentatore quasi contemporaneo al poeta), e la sua coda è un tratto distintivo che lo distingue bestialmente rispetto all’originario virgiliano. Che Minosse fosse il giudice inflessibile e infallibile dell’oltretomba lo si sapeva già dai tempi di Omero, che Minosse appaia qui nel quinto canto è normale perché Ignavi e Limbicoli non sono soggetti a questo tipo di giudizio, ma con Dante non dobbiamo mai essere troppo tranquilli. Minosse e la sua sposa, lo vedremo in canti futuri, sono personaggi legati alla lussuria e di una lussuria più animalesche e feroci di quanto si possa immaginare. Minosse cerca di bloccare i due, instilla persino un sospetto nel vivente circa la sua guida fantasma, ma Virgilio non si lascia intimidire, esibisce il suo solito salvacondotto divino (“Vuolsi così colà…) e riesce a farla franca.

Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.

Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.

La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.

Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.

Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.

Siamo in un luogo muto di luce (sembra quasi che il Nostro quando deve descrivere il Male non riesca a non far andare in cortocircuito sensi diversi). Siamo nel cerchio dei Lussuriosi, di coloro che la “ragione sommettono al talento”: la pena è quella di essere travolti da una bufera infernale senza tregua, così come in vita furono travolti dal vento impetuoso delle loro passioni. Quando queste anime giungono davanti alla “ruina”, cioè  d una frana, aumentano il loro pianto e tormento. Di che “ruina” si tratta? Con buona probabilità si tratta di “una screpolatura dell’Inferno prodotta quando Cristo entrò nel Limbo” (Berthier). Questa tesi non piace a coloro che vedono nell’opera il work in progress  di un poeta ancora inesperto e forse con le idee poco chiare. A sostegno di questo pongono il fatto che di questo terremoto, causato dalla discesa di Cristo, si parlerà ben sette canti avanti. Una lungimiranza impensabile in Alighieri. Figuriamoci! A me piace invece pensare che la presenza di Cristo, nell’Inferno, è una presenza visibile, che cambia il paesaggio, che ferisce e stravolge la geografia del male. Naturale che davanti a questi “segni” i dannati aumentino la loro disperazione e le loro bestemmie.

E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali;

di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.

E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’io venir, traendo guai,

ombre portate da la detta briga;

La natura di queste anime, così come la loro pena, è una natura aerea. Volatile. Forse volubile. Gli storni d’inverno con il loro sali e scendi, i lamenti delle gru allineate in volo. E le gru le troviamo anche in Virgilio e Lucano (ultimo dei cinque onorevoli poeti del Limbo) “Lai” sta per lamento,  è un melodioso provenzalismo. Da esso deriva il termine lied. Questo canto incanta con la sua musicalità È indubbio, c’è una sorta di leggerezza che ci trascina e seduce.
Inizia la prima rassegna di dannati: Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille, Paride, Tristano e tanti altri ancora. Personaggi della storia, del mito e della letteratura.
Dante potrebbe parlare con chiunque di loro, ma è attratto solo da due abbracciati assieme:

I’ cominciai: “Poeta, volontieri
parlerei a que’ due che ‘nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggieri.”

ed è con loro che vuole parlare. Questi si avvicinano:

Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere, dal voler portate;

cotali uscir de la schiera ov’ è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettüoso grido.

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Continua questo incantesimo da uccellatore: le colombe e il dolce nido… tutto è attenuato, cortese, persino il grido risulta “affettüoso”. Questo però è canto di sirene. Il poeta cerca di adescarci. Stiamo attenti. Intanto, le colombe, fin dall’antichità, erano sì note per il loro candore e la loro fedeltà, ma anche animali sacri a Venere e famosi per i loro baci, dati per riparare alla loro tremenda gelosia. E in posizione strategica, a fine verso, in rima con “grido” appare “Dido”, Didone, la regina innamorata di Enea nel quarto libro del poema virgiliano. La sua sorte è tragica. Suicida per amore. Suicida a causa della pietas di Enea, ligio alla sua missione divina, fondare Roma. Didone è la maschera che tutela le questioni infelici del cuore. Didone ci ricorda che amore è morte. Torniamo alle nostre anime volanti. Salta all’occhio che per costoro Dante abbia escogitato un contrappasso di grande sobrietà: corpi sballottati da una bufera infernale. Tutto è casto, controllato, la musicalità dei versi è pudica, il lirismo tenue e soffuso. Se dobbiamo trovare un tratto di oscenità forse lo troviamo nella coda di Minosse con le sue implicazioni falliche (allusione già nota nel Trecento). Dante non ha bisogno di esibire o spingere il pedale su dettagli peccaminosi o sordidi, almeno non per ora, non a questa altezza, non con un peccato che tutto sommato sta ancora in superficie, non distanzia poi così tanto da Dio. Basta una coda.
Parla la donna, parlerà solo lei, il compagno resterà dolente e muto.

O animal grazïoso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’ hai pietà del nostro mal perverso.

“Perso” prima che essere participio passato di “perdere” è un colore, ce lo dice Alighieri stesso nel Convivio, opera filosofica rimasta incompiuta, “perso è un colore misto di purpureo e di nero, ma vince il nero, e da lui si denomina”. “Sanguigno” non significa semplicemente “del color del sangue”, ma è espressione che appartiene al linguaggio tecnico dei tintori. La colpa di questa donna è ad alta intensità cromatica. L’intero cosmo sembra macchiarsi di questa colpa domestica. All’epoca dell’auctor l’arte dei tintori era un’arte imparentata col demonio, soprattutto a causa di quella mescolanza di colori ritenuta contro natura. Tinctor è parola affine alla parola infector (da infingere “impregnare, ricoprire, tingere”). Infectus poteva significare tanto “tinto” quanto “fetido, malato, contagioso”. La donna nel dire “noi che tignemmo”, noi che tingemmo, si pone ad un livello diabolico. Il peccato nominato intorbidisce la limpidezza del creato, contagia l’intero regno di Dio. Un peccato fatto in casa grida la propria colpa, i panni sporchi si gonfiano al soffio della bufera infernale.

Vengono poi intonati versi memorabili:

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense”.
Queste parole da lor ci fuor porte.

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende… Amor, ch’a nullo amato amar perdona: i critici sono tutti concordi nel vedere la contaminazione in questi versi di due autori, un trattatista e un poeta: Andrea Cappellano, autore del “De Amore”, e Guido Guinizzelli, poeta bolognese e autorevole decano dello Stilnovo. In entrambi gli autori l’amore è passione, passione travolgente e irresistibile. Vero è anche che Guinizzelli, sulla scia di Cappellano, è il primo a individuare una sorta di identità tra “amore” e “nobiltà d’animo”, resa attraverso il concetto della “gentilezza” (Al cor gentil rempaira sempre amore). Ma è vero anche che Guinizzelli ancora nasconde attraverso le sembianze di una donna angelicata un amore fin troppo sensuale e passionale. L’idea della donna angelicata è né più né meno che un escamotage, una finzione per evitare di indulgere troppo in questo amore peccaminoso. Siamo pur sempre nel Medio Evo.
Il narratore si rivolge a lei:

Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.

La chiama per nome. La conosce. La riconosce. Conosceva la famiglia. Era stato ospite del padre, Guido da Polenta. Questa la storia: Francesca da Polenta, ancora adolescente, viene data in moglie a Gianciotto Malatesta da Rimini. Il matrimonio rientra in uno dei classici matrimoni per interesse da parte delle famiglie. Ovviamente Francesca si innamorò del cognato, Paolo, e con lui consumò un amore clandestino. Colti in flagrante i due vennero assassinati dal marito tradito e traditore (“Caina attende chi a vita mi spense”). Non fosse stato per questo canto sarebbe rimasto un fato da cronaca nera riminese. La donna racconta, con il dolore di chi è costretto a ricordare un tempo felice nella miseria:

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante.”

Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.

E caddi come corpo morto cade.

Il dramma di Francesca è incastonato tra quel “leggiavamo” imperfetto fiabesco, senza tempo, e quel “leggemmo”, passato remoto drastico e definitivo. Dopo non ci è dato sapere. Però ci turba quello svenimento del pellegrino. Perché questa pietà? È un amore che lo riguarda? Leggiamo la Vita Nova, l’unica testimonianza del suo amore. L’io che narra vede Beatrice, donna bellissima, prima a nove anni e poi nove anni dopo e subito sente la presenza di Amore, uno spirito “fortior” giunto a dominarlo. “D’allora innanzi dico che Amore signoreggiò la mia anima” continua il poeta, siamo nel regno di Didone. Viene raccontato un sogno: gli appare un uomo spaventoso, avvolto in una nebbia di fuoco, tra le sue braccia tiene Beatrice totalmente nuda, salvo un drappo che la copre appena, e nelle sue mani ha un cuore ardente, “Vide cor tuum” dice e costringe la donna a mangiare quel cuore, i due piangono e ascendono al cielo. La visione sgomenta a tal punto il poeta da costringerlo a svegliarsi. A guardare lo schema di questo sogno troviamo analogie con lo schema del canto quinto: 1) il poeta vede una coppia stretti in un amplesso, 2) la coppia è sospesa nel cielo, 3) parla solo uno dei due della coppia, l’altro tace, 4) la vicenda si chiude nel pianto “mentre che l’uno spirto questo disse/l’altro piangea”, “la sua letizia si convertia in amarissimo pianto”, 5) l’episodio colpisce a tal punto il poeta da farlo risvegliare/svenire. Ad agganciare le due vicende però è il colore del drappo che copre Beatrice, ovviamente sanguigno. “Noi che tignemmo il mondo di sanguigno”, la tintoria diabolica aveva infettato anche il nostro poeta. In tempi non sospetti. Non solo, il giovane poeta, in seguito a questo sogno, aveva scritto un sonetto e lo aveva mandato ad esperti “fedeli d’Amore” e a questo sonetto avevano risposto in molti, tra cui quello che diventerà poi il suo “primo amico”, dedicatario anche del libello, Guido Cavalcanti. L’altro Guido. Lo ritroveremo ancora inabissato nei versi del poeta, verrà nominato ancora nei prossimi scritti, apparirà chiaramente in due punti della Commedia, ma nascosto sarà disseminato in ogni dove. Cavalcanti era un intellettuale, materialista, forse un po’ snob, epicureo, uno che dell’amore aveva un’idea violenta e rapinosa ben più di Guinizzelli. L’amore di Guido è l’amore di Francesca. Amore è “un accidente” (così anche nella Vita Nova, “Amore non è per sé sì come sustanzia, ma è un accidente in sustanzia”), un appetito dei sensi che distoglie dal retto ragionare. Amore è ostacolo alla ragione, ne è disequilibrio e crisi. La potenza d’amore è una potenza assoluta e mortifera. Il peccato di lussuria, nella definizione data da Virgilio, riguardava “i peccator carnali,/che la ragion sommettono al talento”. Cavalcanti scrisse una cosa simile in una sua canzone, Donna me prega: “ché la’ntenzione per ragione vale”. Se prendiamo “intenzione” e la sostituiamo con “talento” e se ad entrambi i termini diamo come sinonimo “desiderio” o “passione” il parallelismo è fatto.
Quando Francesca dice “amore” è l’amore di Cavalcanti che nomina. Quello che per Francesca è “amore” per l’auctor è solo lussuria. Su questo equivoco si fonda il dramma di Francesca. L’amore di Francesca è amore profano. Falso amore. Volge al peccato. Per iniziare questo Inferno si doveva ripartire da Guido Cavalcanti, si doveva in qualche modo prendere le distanze dal fallace maestro e da la Vita Nova la quale non poteva più essere rappresentativa del suo pensiero. Per questo era necessario partire dai Lussuriosi, al di là di una gerarchia teologica. Consacrato nel Limbo, qui affronta la prima prova.
Non poteva esserci Commedia senza esorcizzare tutta la sua opera precedente.
Per questo Francesca doveva essere con-dannata e il viandante morire di nuovo, una nuova morte iniziatica.
Il guaio è che tutto in questo canto è di una perfezione insostenibile. Il poeta nel dare addio a quella poesia, a quell’idea di amore, riesca a dare il meglio di sé. Scrive vette davvero somme. Come è possibile andare avanti? Come superarsi? Questa è la sfida.

La Commedia di nuovo si arresta. Muore. E rinasce.

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