Inf.III: l’altro viaggio

caronte

“Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.

Giustizia mosse il mio alto fattore:
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e ’l primo amore.

Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”

Si inizia con una porta
No, signori miei, si inizia con LA porta. E questa porta ci viene sbattuta direttamente in faccia con le sue parole inesorabili, ad apertura di canto.
“Per me… per me… per me…”, la cadenza è ipnotica, tutto in questa epigrafe sembra essere multiplo di tre, la triplice ripetizione iniziale, il riferimento alla Trinità (“divina podestate,/somma sapienza e’l primo amore”) e la triplice menzione al tema dell’eternità.
È triplice perché è una porta e delle porte è patrona Ecate, signora oscura dei trivii.
Questa porta è eterna, così come è eterno l’Inferno. Certo un piccolo dubbio verrebbe, perché, a seguire le tesi filosofico medioevali di natura aristotelica, se l’Inferno è all’interno del mondo e il mondo è composto di elementi corruttibili, destinati a cessare, come può rimanere eterno? L’Inferno, così almeno come ce lo presenterà il poeta, è immanente alla natura e quindi, apparentemente, non ci si spiega come possa esistere anche dopo che la natura cesserà di esistere.
Altra cosa significativa, all’inizio della seconda terzina, a dominare è la parola “giustizia”. Le tre cantiche della Commedia sono, a mio avviso, tre aspetti dell’amore di Dio. Questa prima cantica rappresenta l’amore come giustizia. Da qui ne discende forse un’immagine di inflessibilità carceraria.
Andiamo avanti. O meglio, siamo ancora fermi, davanti a questa porta che ricorda tanto le porte di qualsivoglia comune del Trecento con la sua iscrizione fiammeggiante di colore scuro. Che poi, a guardarla bene, questa porta, al di là del tono minaccioso, non è niente di che. Non ci sono dragoni all’entrata, o guardiani, o fauci tremende, come invece era frequente in altre visioni. Non sembra neppure la porta dell’Inferno, tanto è ordinaria e banale. Si tratta di una porta che conduce ad una città. Forse il male è banale e di comodo accesso.

«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.

Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c’hanno perduto il ben de l’intelletto».

E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond’io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.

A parlare è Virgilio. “Qui si convien lasciare ogne sospetto” è espressione che ricorda l’esortazione della Sibilla ad Enea, nell’Eneide, l’altro poema. Questo è importante, perché questo canto è forse tra tutti il più debitore del libro sesto virgiliano. Debitore al punto che non pochi studiosi hanno visto in questo il timido tentativo di un poeta a iniziare la propria opera, il quale cercherebbe conforto, appoggiandosi ad un capolavoro dell’antichità. A me questa ipotesi sembra parecchio irriconoscente del genio e dell’autonomia dantesca. Il poeta ruba, perché è un bravo poeta. E come ape operosa, dai fiori migliori, genera il miele più buono.

L’eufemismo per indicare il primo regno è: il luogo dove si trovano i dannati che hanno perduto il bene dell’intelletto. Il bene dell’intelletto è Dio, inteso come appagamento supremo di ogni desiderio. A me sembra però che nelle parole di Virgilio quello che emerge sia dopotutto un principio razionale. Mentre scopriremo che il Paradiso e la beatitudine e Dio sono piuttosto il tripudio di tutti quanti i sensi. Quindi la guida porge la mano al pellegrino e lo introduce nelle “segrete cose”, cioè nelle cose ignote o invisibili o separate dai viventi.
Entriamo nell’Inferno dunque.

Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.

Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle

facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira

L’Inferno, prima di tutto, è uno stordimento acustico. Una Babele di rabbia e sofferenza. È rumore. Non aspettatevi melodie o musiche. L’unico strumento a fiato sarà il parodistico peto di un diavolo burlone. Qui abbiamo rumore, pesante, greve, materico. A questo pieno caotico e disturbante abbiamo assenza di luce (“sanza stelle”) e la privazione dell’alternanza giorno/notte (“sanza tempo”). Gli scenari, d’ora in poi, saranno girati tutti in interno. In più salta subito all’occhio, anzi all’orecchi, come questo Inferno sia il regno della disgregazione. La Babele è acustica, ma è soprattutto psicologica, sociale. Non aspettiamoci solidarietà. Qui ognuno è per sé. Nell’odio e nella cecità del proprio solipsismo.
I primi dannati che incontriamo sono i famosissimi Ignavi, ma la parola non è parola che comparirà in questo poema. È intuizione di critici. In altro contributo provo a proporre un’altra tesi. Penso siano molto famosi perché a scuola il canto terzo è un canto d’obbligo. Gli Ignavi sono coloro “che visser sanza ’nfamia e sanza lodo”, tepidamente, senza mai prendere una posizione precisa, netta. Senza mai assumersi alcuna responsabilità. Figuratevi cosa può pensare di loro un uomo che, per le sue scelte, finì condannato al rogo e all’esilio e con lui i figli. Sicuramente tra i peccati che più disturbano il poeta, sono quei peccati che indicano viltà, debolezza. Ovviamente non essendo né carne né pesce, anche la situazione post mortem diventa singolare:

Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli

In altre parole: i cieli non li vogliono per non veder diminuita la loro bellezza, né il profondo Inferno li riceve, perché da tali dannati non avrebbe alcuna gloria. Insomma, troppo poco buoni per il Paradiso, troppo poco cattivi per essere davvero degni dei gironi infernali. Virgilio stesso li liquida con la celeberrima frase: “non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.
Ma quindi dove ci troviamo ora?
Siamo entrati nell’Inferno, ma questo non è ancora Inferno. È un vestibolo. Un anticamera dove sono poste le anime che nessuno vuole. E queste anime che non presero parte vengono presentate come una massa anonima, nuda, sterminata, pungolata da mosconi e vespe, piene di vermi, costrette a inseguire un’insegna che “girando correva” senza mai fermarsi. Anzi che sembra indegna di fermarsi. Iniziano i primi effetti speciali. Ogni tipo di dannato ha una sua punizione specifica. Per contrasto o per analogia a seconda del tipo di peccato. Ha una logica affascinante. Una sorta di ironia divina. Sei sempre stato inerte in vita? Bene, mosconi e vespe ti pungoleranno ora per bene. E per l’eternità. In questa masnada di anime, l’agens vede l’ “ombra di colui/che fece per viltade il gran rifiuto”.

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Anche qui fiumi di parole tra gli studiosi per capire l’identità di questo sconosciuto, primo (non) dannato. C’è chi scomoda Ponzio Pilato (tra gli altri il filosofo Agamben, recentemente), chi Esaù, che rinunciò alla propria primogenitura per un piatto di lenticchie, a me (come ai più) sembra più probabile che l’anima appartenga a Celestino V, il papa che abdicò, consegnando le chiavi della Chiesa a Papa Bonifacio VIII, uno tra i grandi nemici dell’Alighieri. Sembra più probabile, perché il narratore dice “vidi e conobbi”, quindi in qualche modo “ri-conosce” qualcuno che aveva già conosciuto. Cosa verosimile nel caso di Celestino V, impossibile nei due esempi biblici. L’allievo incalza di domande, ne fa ben quattro e non siamo ancora a metà del canto, e il Maestro si spazientisce: le cose saranno chiare quando arriveremo alle rive d’Acheronte.

Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave!

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“Ed ecco”, ricordate così era stata annunciata la lonza nel canto primo. “Ed ecco” indica sempre un cambio di situazione rilevante. “Un vecchio, bianco per antico pelo”: Caronte. Il nocchiero infernale, colui che traghetta le anime dei dannati oltre l’Acheronte, primo fiume infernale.
Leggiamo il libro sesto dell’Eneide: “Queste acque e i fiumi custodisce Caronte, orrendo nocchiero nella sua terribile asprezza, che porta sul mento una folta e incolta barba bianca, stanno fissi gli occhi fiammeggianti e un sordido mantello gli pende dalle spalle legato con un nodo.”
Noi qui vediamo la barba folta e incolta e degli occhi fiammeggianti. Più avanti in questo canto leggeremo “Caron dimonio, con occhi di bragia”. La descrizione è michelangiolesca, questo Caronte ci appare virulento, dipinto a pennellate sulfuree. Lo sentiamo gridare con asprezza:

«Guai a voi, anime prave!

Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo».

Le sue parole sono macigni, della stessa materia con cui la porta infernale annunciava il suo messaggio senza speranza. Sono parole di basalto e magma. E quando vede arrivare un’anima viva il tono continua violento.

«E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch’io non mi partiva,

disse: «Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti».

I “porti” (in rima equivoca con il verbo “porti”) e il “lieve legno” sono sempre parole proprie del Tema del Naufragio, anche se qui prevedono una sorta più felice. Virgilio si pone davanti al nocchiero della “livida palude” ed esibisce il suo lasciapassare divino:

E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare»

“Vuolsi così colà…”: si vuole così là dove si può tutto ciò che si vuole. Il Paradiso è questo. La realizzazione di ogni desiderio. La perfetta coincidenza tra volere e potere. Caronte acqueta le “lanose gote”, smette di sbuffare, in sostanza, si sgonfia. E si rivolge alle altre anime (con somma gioia dell’istrione dalla voce maliosa, il quale potrà quindi declamare):

Caron dimonio, con occhi di bragia,
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia.

Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie

Le anime vengono paragonate alle foglie che si sollevano in autunno. L’espressione è diventata proverbiale. Ha una storia molto lunga. Vero, parte da Virgilio, “quam multa in silvis autumni frigore primo / lapsa cadunt folla”, “come numerose nelle selve cadono le foglie staccandosi al primo freddo dell’autunno”, ma Virgilio, a sua volta, preleva l’espressione da Omero, dal libro sesto dell’Iliade, il dialogo tra Glauco e Diomede, “Magnanimo Tidide, perché tu mi chiedi la mia stirpe? Quale è la generazione delle foglie, tale è anche quella degli uomini. Le foglie, alcune il vento sparge a terra, ma altre ne produce la selva rigogliosa, e giunge la stagione di primavera: così le generazioni degli uomini, nasce una, l’altra scompare.” Ma questa immagine poi coinvolgerà altri poeti, come il lirico Mimnermo:

Al modo delle foglie che nel tempo
fiorito della primavera nascono
e ai raggi del sole rapide crescono,
noi simili a quelle per un attimo
abbiamo diletto del fiore dell’età

Ma se nei poeti antichi l’espressione indica più che altro la moltitudine delle stirpi, in Dante, questa notazione autunnale indica piuttosto la caducità della condizione umana. Fotografa l’uomo in tutta la sua fragilità. Forse il poeta che saprà rendere al meglio questo concetto, con una scrittura fulminea, sarà Giuseppe Ungaretti con i quattro versi di Soldati:

Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie.

Questa digressione per dire che le immagini poetiche vivono, crescono, viaggiano e mutano. Il punto è che forse queste mie parole hanno distratto voi, ma in fondo anche il poeta ci ha distratti, perché il gesto di Caronte di indirizzare la sua attenzione alle altre anime, con la bellissima similitudine dell’autunno e delle foglie, ha distratto noi dal fatto che nonostante il salvacondotto celeste, di fatto, Caronte si rifiuti di prendere il viandante e la sua guida.
Ben altro esito ebbe l’altro Caronte, quello dell’Eneide: “Allora s’acquietò il cuore gonfio d’ira, né aggiunse altre parole a queste. Ammirando il venerabile dono del fatale ramo d’oro, veduto dopo lungo tempo, gira la cerulea poppa e s’avvicina alla riva.”
La differenza sta nel ramo d’oro. Enea riesce a salire sulla barca, perché sa porgere il ramoscello d’oro, omaggio a Proserpina, regina degli Inferi. Dante non riesce.
“Io non Enea” aveva detto nel canto precedente. E sembra quasi aver ragione. In questo Inferno, in questo viaggio, non pare funzionare la logica della Sibilla. Occorre un altro mezzo.

Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.

La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;

e caddi come l’uom cui sonno piglia.

L’intervento è divino. Miracoloso. Un intervento non dissimile da quello che abbagliò sulla strada di Damasco, Saulo il persecutore, prima di farlo diventare Paolo, come leggiamo nel capitolo 9 degli Atti degli Apostoli, “E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Perché il nostro agens possa varcare quel fiume, all’esperienza pagana di Enea deve sommarsi l’esperienza cristiana di Paolo. In questo il nostro poeta prende le distanze dal suo modello letterario.
Virgilio fallisce dinnanzi a Caronte che è “dimonio” e non appartiene più al mito. Fallisce già da subito, alla prima semplice transizione. Il nostro eroe rischierebbe già di veder fallita la sua impresa se si affidasse solo al proprio spirito guida/Ragione. Occorre dell’altro, così come era servito l’intervento delle tre donne dal cielo per avviare tutta il processo salvifico. L’uomo da solo non può superare certi limiti, se non è supportato dalla Grazia.
C’è una caduta e un sonno. Un nuovo sonno, rispetto al sonno che ci fece entrare nella selva.
Questo canto rifiuta le soluzioni dell’altro viaggio. Lo omaggia, certo, si appoggia ad esso, ma quando è il momento di mostrare la propria autonomia non esita a prendere la propria strada.
Una strada nuova.
Sulla soglia, sul limen, di questo non Inferno, l’agens muore la sua prima morte iniziatica. Il risveglio oltre l’Acheronte sarà l’inizio di un nuovo livello. Certo Virgilio con il suo poema sarà ancora un riferimento potente e prezioso, ma l’eroe che è entrato “per lo cammino alto e silvestro”, dopo l’intervento di Beatrice, dopo lo scioglimento di ogni gelo interiore, è un eroe che deve tracciare nuovi percorsi, vivere nuove esperienze.
E all’ombra del Maestro si prepara a superarlo.

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